
I rosariSpesso eseguiti in argento, oppure in eccezionali versioni in oro, oltre che con granati, madreperla, corallo, legno o paste vitree. In Sardegna, oltretutto, le corone del rosario, anche perché venivano spesso portate al collo a mo’ di collane o ostentate fra le mani, componendo quasi un insieme con il resto del costume, assumono un tale rilievo estetico da poter essere considerate pienamente come parte del corredo canonico dei gioielli. Si ritrovano rosari di vario tipo, con prevalenza di quelli domenicani, ma sostanzialmente di due generi rispetto alla struttura compositiva. Uno, più elementare e di origini più antiche, è caratterizzato da vaghi infilati in una cordicella; l’altro, più evoluto, ha elementi incatenati da fili metallici ritorti e spartitori ad S. Nel primo genere rientrano i rosarios de terra santa, per lo più in madreperla, che terminano solitamente con una croce o una medaglia realizzata nello stesso materiale di importazione. Questo ampio uso della madreperla non sembra casuale, in quanto la conchiglia, che contiene la perla, assimilabile al Cristo, è ritenuta un simbolo mariano, come è significativo l’impiego del corallo, segno della doppia natura di Gesù e della sua Passione. Fanno parte dell’altra categoria, con componenti incatenate, corone variamente strutturate, per lo più con padrenostri costituiti da sferette a forma di bottone, in lamina o filigrana anche granulate, alternati ad avemarie simili, ma più piccole o formate da vaghi di materiali colorati, e con terminali scompartiti da elementi a forma di stella e/o di fiocco. In questi reperti ricorrono pendenti a croce, o teche dette patenas, che includono figure di santi ritagliate in madreperla o stampate su carta, tessuti colorati, o impressioni su lamina di antiche medaglie. Le patene hanno di solito cornici a raggiera di gigli, patena a lillus, o con fogliame a ricurve volute barocche (patena a crox ’e nuxedda). I rosari più elaborati recano tre patene oppure una croce centrale fiancheggiata da sue patene, connesse con un fiocco e/o ad una figura stellare, del medesimo metallo. Il fiocco connota rosari specificatamente nuziali o dono di fidanzamento.
Agnus dei e reliquiariIl fenomeno della commistione fra sacro e profano, caratteristico della gioielleria non soltanto popolare, trova esempi significativi nei reliquari detti nudeus, da agnus dei, la cui funzione apotropaica e di talismano è ampiamente attestata. Si tratta di scatolette in lamina d’argento apribili su un lato, quasi sempre arricchite da vari inserti in filigrana. Le forme più comuni sono circolari, ovali o a cuore; all’interno sono contenuti i più vari materiali (santini, pagine di breviari, cera, foglie di ulivo ecc.) quasi sempre occultati da frammenti di broccati policromi, protetti da vetrini trasparenti. Queste teche erano appese a catene usate come collane o fissati a spezzoni di maglie interconnesse, non di rado muniti di fermi a T o apposite maglie circolari terminali atte a cucirli o fissarli agli indumenti. Anche per questi gioielli è chiara la derivazione da reliquari di tipo non popolare. Fra i gioielli a carattere religioso rientrano, naturalmente, anche le croci di vario tipo e forma prodotte dagli argentieri locali e alcuni scapolari in argento con la raffigurazione della Vergine del Carmelo che si portavano inseriti in catene o collane o cuciti agli indumenti, come dimostrano i fori pervi che presentano agli angoli.
AmuletiLe qualità terapeutiche e difensive attribuite ai gioielli da tempi immemorabili risultano preponderanti in alcuni manufatti, quasi sempre in argento in associazione con i materiali più vari, talora pregiati come il cristallo di rocca ed il corallo, ma più spesso di scarso valore venale. Un gruppo di amuleti notevole per varietà e diffusione è rappresentato da quelli destinati alla protezione dalla sfortuna dei neonati e dei bimbi, certamente per via dell’altissima mortalità infantile che affliggeva i ceti subalterni nel passato. Fra tutti si deve ricordare il pinnadellu, cocco o sabegia, che è una sferetta, nella stragrande maggioranza dei casi in vetro nero, ma anche in paste vitree colorate o a fiorami, cocco frorìu, oppure in corallo o altri materiali, imperniata e fermata da sue calotte emisferiche sospese a catenelle in argento, con elaborazioni più o meno complesse. Questo amuleto sardo rimanda al lapis niger dei romani e ai numerosissimi amuleti e piccoli oggetti devozionali realizzati in giaietto, un minerale presente soprattutto in Spagna, molto in voga nel rinascimento e diffusi dai pellegrini che si recavano a Santiago di Compostela. Ugualmente impiegata per la tutela magica dei bimbi era la perda de latti, amuleto formato in genere da un tappo di caraffa in vetro lattescente, incapsulato in argento, che pare avesse anche funzione di dentaruolo. Specifico rimedio contro le temutissime malattie oculari, invece, era reputato l’opercolo di un gasteropode marino, l’astrea rugosa, detto oju de Santa Luchia, mentre le affezioni della testa e la sterilità erano scongiurate grazie a conchiglie, locali e di importazione, le cypraee, che richiamano nella forma i genitali femminili. Largamente diffusi, poi, erano gli spurgadentes, tipici gioielli spesso configurati a forma di cuore, di cervo oppure di cavallo o di volatile, muniti di due appendici, una acuminata e l’altra semicircolare, realizzati mediante varie tecniche (fusione, laminazione, traforo, filigrana) e a volte arricchiti da paste vitree e coralli incastonati. Questi manufatti in origine erano destinati alla pulizia dei denti e delle orecchie, come simili gioielli di età romana e rinascimentale, ma erano ritenuti anche potenti antagonisti delle forze negative soprattutto per il potere respingente che si attribuiva agli oggetti appuntiti. Alcuni spuligadentes, per altro, risultano formati da tre o cinque barrette con diversi tipi di punte che, essendo imperniate, possono aprirsi a ventaglio, come certi scovolini per pipe usati in ambito borghese nell’800. In alcuni centri, come ad Oliena e Dorgali, lo spuligadentes, che talora comprende nella sua struttura un fischietto, è per lo più assicurato ad una catena in argento, di fattura più o meno articolata e fine, e si accompagna ad ampolline o cilindretti porta-profumi, le nuscheras, nello stesso metallo, per le quali vengono citati confronti con simili con gioielli punici, ebraici o mussulmani (che contenevano scongiuri o brani di testi sacri ) ma anche con gli odorini usati in ambito aristocratico sin da epoca rinascimentale. Assai caratteristici sono i dringhilli, frammenti di recipienti in vetro appositamente montati in argento e quasi sempre accompagnati da campanellini o bubboli, nel medesimo metallo, il cui suono era ritenuto apotropaico. Il repertorio di questi ultimi gioielli, comunque, è assai vario perché non di rado originato anche da fatti accidentali, come il ritrovamento casuale di un oggetto “strano” o, ad esempio, dalla rottura improvvisa di un contenitore che si pensava avesse distratto la negatività dagli individui concentrandola su di sé. Infine nell’ambito degli amuleti tradizionali isolani hanno spicco i cosiddetti poliamuleti, presumibilmente identificabili nei gioguittos citati in atti d’archivio sette-ottocenteschi. Si tratta di collane in argento, che recano diversi esemplari, spesso in numero dispari, dei manufatti a cui si è accennato, alle quali la tradizione locale assegnava grande forza contro disgrazie, avversità e malattie, proprio perché era convinzione comune che l’unione di numerosi amuleti e talismani ne determinasse l'ampliamento dei poteri